[ Einaudi, Torino 2020 ]
Esistono, nella letteratura contemporanea, due enormi riserve di immaginario che pescano dal mondo. La prima riguarda la storia familiare: si raccontano le vicende dei nonni, dei padri, quindi la guerra, gli anni Settanta. La seconda è quella dell’attualità, della cronaca. Entrambi questi giacimenti di materiale narrativo hanno a che fare con una grande crisi della mitopoiesi, della capacità della letteratura di costruire, e raccontare, storie.
La città dei vivi di Nicola Lagioia appartiene a questa seconda categoria. Al suo centro l’omicidio di Luca Varani, ventitreenne romano ucciso barbaramente da Manuel Foffo e Marco Prato, di poco più grandi, all’apice di un lungo delirio di vodka e cocaina.
I due, rei confessi, non hanno un vero movente, se non curiosità ed eccesso; la cieca violenza colpisce l’opinione pubblica e fornisce allo scrittore materia d’indagine. Il libro ricostruisce non solo e non tanto i fatti, di dominio pubblico, quanto le psicologie degli interessati e le immagini che ciascuno di essi lascia impresse sulla retina di conoscenti, amici, parenti, e che mai dimostrano fra loro reale coerenza. Voci e testimonianze si susseguono per tutto il libro, e hanno le fonti più diverse: interviste, deposizioni, stampa, ricerche personali. I conti che dunque si presentano al lettore non tornano; ragioni e vite dei singoli non si possono comprendere fino in fondo. Restano i fatti.
«L’omicidio è il male e il male è il narratore della storia». L’incomprensibilità è uno dei cardini del testo. Perché l’hanno fatto? Condizioni socioeconomiche? Noia? Un nuovo disagio della civiltà? Abuso di droghe? Ciascuna risposta darebbe origine a un romanzo, volta per volta esistenzialista, nichilista, psicologico, sociale. Ma nessuna di queste linee prende il sopravvento e quel che ne esce non è, appunto, un romanzo, ma un saggio sul male: un male anch’esso, nonostante gli sforzi del narratore, incomprensibile, la cui natura oscilla costantemente fra storica e demonica. Lo scrittore vi oppone una possente ma sconfitta volontà di ricerca, e un richiamo – ma quanto esposto alla frustrazione! – alla responsabilità. «Andava rintracciata la responsabilità individuale in un’epoca in cui, cerchio retorico dopo cerchio retorico, questo concetto andava nascondendosi sempre più lontano».
Roma, la città dei vivi (minacciata sempre di essere inghiotta dalla città dei morti, in un’eterna ordalia di sfavillio e decadenza), è sullo sfondo e in primo piano. Anche qui, l’indistinzione non è sciolta: è il labirinto delle notti brave, dei festini nei bugigattoli a base di coca; è quella dei turisti, vera sentina del mondo; è quella, infine, di Nicola Lagioia che ne percorre le strade, se ne va, torna, la ama e la condanna. Nella città, nei suoi marmi, nei suoi predatori stanno le parti migliori dell’opera, peraltro non rade: lo sguardo si apre e inquadra quell’enorme correlativo oggettivo di tutto e di nulla, pronto a mettere alla prova l’animo di ognuno. «Chi ha bisogno di illusioni, eviti le lunghe soste in città».
Al termine della lettura resta una domanda: «a cosa ci serve questo libro?». Mal posta, si dovrà invece chiedere: a chi parla l’autore? E soprattutto: a nome di chi? E cosa dice? Queste domande sono nonostante tutto legittime, proprio perché il testo resta spesso al di qua del letterario. Lagioia tenta un’operazione desueta, quella dell’intellettuale che elabora e offre al dibattito ragionamenti e interpretazioni – gesto interessante, per uno scrittore che ha ampiamente frequentato, nelle sue fasi iniziali, il postmodernismo. Non è detto, però, che la mossa abbia successo: senza una narrazione letteraria, con le sue teleologie artificiali (anche negative); senza una collettività, con le sue interpretazioni nette (pur parziali), il rovello dell’autore rischia di continuare a rimbalzare, eterna ricerca nella cattiva, angosciosa infinità del male.
Lascia un commento